Violenza contro le donne, il divieto di avvicinamento serve a qualcosa?
DIRITTOETUTELAFOIS.COM - Violenza contro le donne, il divieto di avvicinamento serve a qualcosa?
L'avvocato del Foro di Rovigo Fulvia Fois affronta l'efficacia della misura del divieto di avvicinamento a contrasto della violenza di genere e del femminicidio
Care lettrici e cari lettori,
questa settimana voglio parlarvi di un argomento che fa molto discutere e che, purtroppo, negli ultimi giorni, è tornato a far parlare.
Avrete sicuramente sentito dai mass media la notizia del brutale omicidio avvenuto a Bologna pochi giorni fa dove un uomo ha finito a colpi di martello la compagna al rientro a casa.
La donna è stata barbaramente massacrata dall’ex compagno, che aveva già denunciato, e che era sottoposto al divieto di avvicinamento nei confronti della vittima.
Purtroppo, si tratta soltanto dell’ultimo di una serie troppo lunga di nomi che ormai quasi ogni giorno si aggiungono alla lista delle vittime di violenza di genere, aggredite, minacciate, uccise da uomini nonostante questi fossero destinatari di misure cautelari coercitive.
La domanda, allora, sorge spontanea: queste misure possono dirsi efficaci? Servono realmente? La loro efficacia viene appurata o ci si limita ad un’astratta applicazione delle stesse, sottovalutando la pericolosità dell’individuo?
Innanzitutto, dobbiamo specificare che il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa appartiene alla famiglia delle misure cautelari coercitive, volte cioè alla limitazione o privazione della libertà personale dell’individuo.
Il nostro Codice di Procedura Penale prevede, all’art. 282 ter, che il Giudice, qualora ritenga che un possibile contatto tra vittima e imputato possa essere pericoloso, può imporre a quest’ultimo il divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa (eventualmente, anche ai luoghi frequentati da prossimi congiunti della vittima, da persone con questa conviventi o comunque a lei legate da relazione affettiva), ovvero di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa stessa.
Può ad esempio accadere che, a fronte della commissione del reato di stalking, il Giudice imponga all’imputato il divieto di avvicinarsi alla persona offesa, prevedendo altresì che in caso di incontro casuale, venga mantenuta una distanza di un certo numero di metri, e venga vietata anche qualsiasi forma di comunicazione (sms, telefonate, Whatsapp ecc…) con la vittima.
Ma questo è sufficiente?
E come viene verificato il rispetto di questo tipo di misura?
Il legislatore, consapevole della lacunosità del sistema di “controllo” circa la fattiva applicazione del divieto di avvicinamento, ha previsto con il cd. “Codice Rosso” del 2019, la possibilità di verificare il rispetto del divieto attraverso mezzi elettronici o altri strumenti come, ad esempio, il cd. braccialetto elettronico.
Oltre a ciò, sempre il Codice Rosso ha introdotto all’art. 387 bis c.p. una nuova fattispecie di reato volta a sanzionare proprio le condotte di chi, sottoposto ad una misura cautelare, violi il provvedimento di allontanamento dalla casa familiare o il divieto di avvicinamento.
Pare, quindi, che gli strumenti volti a prevenire tragici epiloghi ci siano, così come parrebbero esserci strumenti di controllo volti a garantire il rispetto delle misure cautelari.
E invece no, qualcosa non va.
Chi arriva a perseguitare una persona, a minacciarla, a pedinarla non smetterà di farlo solo perché un provvedimento gli vieta di avvicinarsi a lei, continuerà nella sua opera non soltanto per perseguire i propri intenti ma anche perché sa che, bene o male, oltre ad un’iniziale “lavata di capo”, prima o poi potrà tornare in libertà e vivere la vita di sempre.
Sono davvero tantissimi i casi in cui la vittima, nonostante la vigenza del divieto di avvicinamento, non si sente al sicuro e si guarda costantemente le spalle perché sa che il suo persecutore non desisterà.
La vittima conosce chi ha di fronte e questo dovrebbe fare anche la Giustizia, ovvero cercare di comprendere con chi ha a che fare.
La neutralità operativa del sistema applicativo delle misure cautelari deve necessariamente essere calibrata all’assetto psicologico dell’imputato.
Quando si valuta l’applicazione o, soprattutto, la revoca di una misura cautelare, occorre considerare che la morbosità, ad esempio in ipotesi di atti persecutori, è intrinsecamente connessa alla recidiva.
Questo, purtroppo, non sempre avviene, con la conseguenza che si assiste alla revoca prematura di misure cautelari quali il divieto di avvicinamento, esponendo così la vittima ad indicibili pericoli che, purtroppo, come nel caso riportato in apertura, si concretizzano.
È dunque imprescindibile, a mio avviso, implementare ed integrare il sistema cautelare, ma anche garantire un’applicazione concreta ed efficace dello stesso, mettendo a sistema non soltanto le esigenze dell’imputato ma anche i bisogni della vittima, che ha il diritto di essere e di sentirsi tutelata.
COSA NE PENSO IO?
Ritengo che sia molto importante prevenire gli atti di violenza con un investimento serio e costante da parte dello Stato, fin dalla tenera età di ogni bambino con la creazione di una cultura del rispetto reciproco che poi deve essere portata avanti, senza esitazione, in ambito scolastico, familiare e sociale. Penso che gli strumenti di tutela, come dimostrano talvolta e purtroppo i fatti di cronaca, debbano essere calibrati sempre con molta attenzione da parte del magistrato, onde cercare di tutelare dal pericolo la vittima.
Essendo ad esempio il reato di atti persecutori legato alla personalità problematica e insana dell’autore, alla sua necessità di controllare la vittima e di punirla, è difficile, e questo va tenuto a mente, che la misura del divieto di avvicinamento possa essere ritenuta di per se stessa idonea e sufficiente a tutelarla in modo concreto.
C’è da ricordarsi infine, senza pretesa di esaustività, che la vittima già terrorizzata non deve essere “gestita” come il proprio carnefice -magari ancora libero di condurre la propria vita- limitando il suo diritto di vivere e di mantenere i contatti con i propri familiari, il proprio posto di lavoro e la certezza di vender crescere serenamente i propri figli.
Se avete delle domande o volete propormi un argomento di cui parlare, potete farlo scrivendomi all’indirizzo e-mail dirittoetutela3.0@gmail.com o compilando il form che trovate sul sito www.studiolegalefois.it.
Avv. Fulvia Fois